Quale umanesimo per il XXI Secolo?
Collegio Ghislieri – Sala Goldoniana, Martedì 10 giugno ore 21
Intervento di Saluto ALESSANDRO MARANESI, Rettore Collegio Ghislieri
L’incontro che si è tenuto al Collegio Ghislieri il 7 giugno scorso su «Quale umanesimo per il XXI secolo?» ha rappresentato un momento prezioso di riflessione su un tema che continua a interrogare in profondità il nostro tempo.
In un’epoca in cui si moltiplicano le invocazioni all’umanesimo e al postumanesimo, occorre forse riconoscere con onestà anche le tante forme di disumanesimo che ci circondano: l’indifferenza sistemica, la disuguaglianza eretta a principio, la spoliazione del linguaggio e del pensiero critico. In tal senso, non basta difendere l’idea di “uomo”: occorre ricomprenderla, nella sua fragilità, nella sua apertura, nella sua responsabilità.
Scrive Simone Weil che «la compassione è una verità», e che essa costituisce il punto più alto e più raro dell’attenzione. In questa direzione si muovono anche le parole di Hannah Arendt, quando ci invita a non smettere di pensare, perché è nel pensiero – non nell’obbedienza – che risiede il fondamento della dignità umana.
Offrire uno spazio di dialogo su questi temi, come è accaduto in Collegio, significa contribuire a mantenere viva una dimensione civile del sapere. Ringrazio dunque i relatori, il pubblico e quanti vorranno proseguire questo confronto, anche attraverso la pubblicazione di questi materiali.
Introduzione di MARCO MANZONI ideatore dell’incontro pubblico
Mi sono domandato che senso avesse porsi oggi l’interrogativo che dà il titolo al nostro incontro, in una condizione del mondo e dell’uomo come quella attuale che appare molto distante da una sensibilità e attenzione verso i valori umani.
La mia personale risposta è che proprio in questo momento così impervio e pieno di incognite è importante avere un doppio sguardo, uno sulla nostra drammatica attualità, l’altro per intravedere una visione del futuro, anche se ai nostri occhi può apparire utopica.
La situazione così grave del mondo, in particolare con le guerre in corso, dimostra, a mio parere, non il trionfo, ma il fallimento del paradigma culturale e sociale che domina da molti secoli e che si basa sull’uomo più forte economicamente, militarmente e oggi anche digitalmente: un uomo egoico, violento, cinico, arrogante.
Ovvero una forma mentis fondata su una concezione brutale e primitiva della forza e del potere fine a se stesso e non come servizio per la comunità.
È la forma mentis che, in occasione del mio ultimo libro, Salvare il futuro, ho denominato Homo hybris, l’uomo mai sazio del proprio ego il cui scopo esistenziale è aumentare il proprio potere dominando l’altro e il diverso.
Le vicende di questi. giorni ci mostrano una volta di più che senza i valori umani la vita perde il suo orientamento, cade nella distruttività e nell’indifferenza e assuefazione verso il male.
Nella storia dell’avventura umana questi valori sono stati essenziali, se non per eliminare il male dal mondo, per contenerlo e integrarlo.
La crisi dell’uomo cui siamo di fronte non è perciò solo economica, sociale, ambientale, ma è – a mio parere – una crisi antropologica e riguarda il senso profondo dell’esistenza umana individuale e collettiva, il nostro stare al mondo e il come stare nel mondo.
Per affrontare questa crisi in modo positivo è necessario, a mio parere, immaginare un profondo cambiamento di quel paradigma, un vero e proprio salto di qualità della coscienza umana, una diversa modalità nel rapporto con l’altro e nell’abitare Il pianeta che ci ospita, come Ermanno Olmi intitolò il suo documentario per Expo 2015.
Abbiamo dunque necessità di un cambio di paradigma che sia ispirato, da una parte, da parole tipiche dell’etica laica e religiosa che esprimono non da oggi valori e sentimenti che danno forma al nostro agire quotidiano.
Ne cito solo alcune:
attenzione, empatia, gentilezza, generosità, mitezza, armonia, ironia, cura, accoglienza, relazione, fortezza, senso del limite, responsabilità, bene comune.
A mio parere, queste parole non sono valori liquidi perché durano nel tempo e per questo. sono dotate di autorevolezza e autenticità.
E dall’altra parte abbiamo necessità di immaginare un cambio di paradigma che – come hanno proposto in questi ultimi anni due grandi saggi del nostro tempo, il nostro caro papa Francesco sul fronte religioso e l’epistemologo Edgar Morin su quello laico – sia fondato su una versione meno antropocentrica di umanesimo che, paradossalmente, proprio a partire dalle inedite problematiche del nostro tempo, possa essere in grado di compiere il compito quasi impossibile di un salto di qualità del pensiero e della presenza umana sulla Terra.
Quindi, proprio nella difficile condizione in cui si trova l’umanità, abbiamo l’opportunità di un reale cambiamento interiore, unica condizione per un concreto cambiamento del nostro agire.
A mio parere vi sono quattro sfide, nel contempo etiche e scientifiche, che ci indicano la necessità di un nuovo umanesimo.
La prima sfida riguarda le guerre, le violenze e le diverse forme dell’illegalità, che rappresentano i diversi e inquietanti volti di un potere e di un uomo che non accettano limiti e che mostrano – con l’escalation della violenza e della distruttività – il loro carattere nichilista e autodistruttivo.
Lo vediamo nel macrocosmo con le guerre, nel microcosmo quotidiano con i femminicidi: è la stessa matrice del peggior maschilismo.
È la stessa forma mentis che opera per distruggere il più debole.
In questo caso, siamo chiamati a una svolta epocale della coscienza e
dell’identità umana: dall’ uomo che ho chiamato – nel mio ultimo libro, “Salvare il futuro” – Homo hybris, l’uomo che prima separa e polarizza e poi distrugge l’altro, a quello che ho chiamato Homo pathos, l’uomo non perfetto né onnipotente, l’uomo religioso in senso etimologicamente, l’uomo che religa, che opera tenacemente per tenere insieme le diversità del mondo e farle cooperare il più possibile in forma creativa e pacifica.
Una svolta antropologica che ha al suo centro una nuova idea della “forza”, più ispirata al lato femminile, anche quello presente nel maschio, e la parola “relazione”: con sé stessi, con l’altro umano, con le altre forme viventi.
Certamente il male non verrà eliminato dal mondo, ma lo si affronterà con più consapevolezza.
Una forza e una relazione più miti e armoniose, senza perdere la determinazione.
La seconda sfida è rappresentata dalle enormi disuguaglianze sociali tra Nord e Sud del pianeta e dall’abnorme concentrazione di ricchezza e potere in poche mani, entrambe inedite in questa entità.
Questa condizione ci chiama a mettere in discussione una delle parole chiave dell’Occidente: la parola “progresso” che non può più essere ridotta alla pura crescita quantitativa e al PIL, a cui partecipano anche l’industria delle armi e diverse forme di illegalità economica e finanziaria, ma il cui senso deve allargarsi nella direzione del progresso multidimensionale – etico, sociale, ambientale – di cui, come sentirete tra poco, parlava Salvatore Veca, ovvero il progresso integrale di cui parlava papa Francesco nell’Enciclica Laudato sì.
Una concordanza di grande rilevanza su questo. tema tra pensiero laico e religioso, a mio avviso, non ancora pienamente compresa e valorizzata)
La terza sfida del nostro tempo riguarda la difficile governance etica della innovazione tecnologica che oggi si deve confrontare con l’enorme e sconosciuta potenza dell’intelligenza artificiale, che non può essere lasciata alla sua crescita autoreferenziale.
A questo proposito, è necessario dar vita a una nuova disciplina, l’algor-etica, che sia in grado di gestire responsabilmente una crescita che rischia di essere già oggi incontrollabile.
In questo caso, siamo chiamati a un altro salto di qualità rappresentato dal non ridurre la mente e l’intelligenza umana alla pura dimensione quantitativa e calcolante – la legge dell’algoritmo – che sacrifica e emargina altre forme dell’intelligenza dell’uomo che ne caratterizzano da sempre la sua essenzialità: quella immaginativa ed emotiva, l’artistico-estetica, quella del corpo e dei sensi, quella legata al senso di coappartenenza con le altre forme di vita.
Un’intelligenza integrale che nessuna macchina può imitare.
La quarta e decisiva sfida è l’emergenza ecologica e climatica della Terra, che oggi anche la scienza ufficiale, sebbene con decenni di ritardo – basti pensare alla ricerca su I limiti dello sviluppo del MIT di Boston commissionata nel 1972 dal Club di Roma di Aurelio Peccei, non presa sul serio dall’establishment scientifico di quei tempi -, assegna all’Antropocene, all’impatto umano sul Pianeta.
La crisi ecologica della Terra è oggi messa nuovamente ai margini del discorso pubblico – dopo che la pandemia aveva indotto una presa di consapevolezza, purtroppo già svanita – e ci mostra il fallimento di una crescita pensata come illimitata e di un consumismo materialista distruttivo, dell’ambiente così come della dimensione interiore della persona.
Quindi, ci pone davanti a una grande domanda sul senso dell’esistenza: cosa significhi oggi senso del limite.
Siamo chiamati, in questo caso, a un altro versante del salto di qualità della coscienza umana: a una nuova consapevolezza della relazione ineliminabile tra uomo e natura, della dignità delle altre forme viventi, del ruolo non di dominatore e distruttore, ma di custodia, cura e amorevole cooperazione dell’uomo con tutto il Creato, a quella conversione ecologica e interiore evocata da papa Francesco nella Laudato sì, ovvero alla Terra come comunità planetaria e destino dell’uomo di cui parla Edgar Morin,
quindi una comunità non solo umana ma di cui fanno parte le altre forme viventi.
Quattro sfide impegnative, ma anche quattro significative opportunità per l’uomo per una sua evoluzione nella direzione di un essere più completo, un essere integrale.
Il poeta Friedrich Holderlin, qualche secolo fa, aveva profeticamente cantato che Là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva.
Oggi siamo chiamati a far crescere “ciò che salva”.
Abbiamo dunque oggi la responsabilità etica e spirituale di rinnovare il pensiero umano, di rilanciare un umanesimo adeguato ai nostri tempi, di contribuire a un salto della coscienza umana che – proprio di fronte all’abisso – apra gli occhi e lo sguardo, da una parte verso la Terra e la materia così vilipese, dall’altra verso il Cielo, verso la dimensione immateriale e spirituale che può ispirarci in questo. epocale passaggio dell’avventura umana.
Quelli che seguono a me pare possano essere alcuni punti significativi di un cambio di paradigma, che appare oggi utopico quanto necessario, verso un nuovo umanesimo planetario:
- la svolta da Homo hybris a Homo pathos, dalla violenza distruttiva a una forza gentile
- un progresso multidimensionale
- una nuova intelligenza, una mente integrale
- una modalità più femminile come nuovo baricentro della relazione con l’altro
- una cura e cooperazione ispirate all’armonia con le altre forme viventi
Questa, a mio parere, è la quasi impensabile svolta della coscienza e del pensiero dell’uomo che ci sta di fronte per dare un futuro, non tanto alla Terra che ci sopravviverà, ma alle nuove generazioni e all’umano, che non è riducibile né al robot, né ai diversi e inquietanti volti del post umano e del disumano.
C’è quindi da lavorare, con coraggio, umiltà, speranza.
SILVANA BORUTTI, filosofa
1. Una storia
In un’epoca come la nostra, dominata dagli specialismi, l’umanesimo, inteso come domanda di senso intorno ai significati e ai fini delle azioni e delle produzioni umane, appare un atteggiamento culturale irrinunciabile. Tuttavia, è importante chiedersi: quale forma di umanesimo?
Il mio intervento prenderà spunto dalla critica a una forma di umanesimo “classicista”. Sosterrò poi che l’umanesimo nel mondo contemporaneo ha invece molto da imparare dal modo con cui scienze umane come etnologia e antropologia hanno guardato alla specificità storica e culturale di altre culture e di altre epoche.
Ma vorrei prima raccontare una storia, la storia di Ishi.
Vorrei lasciare che a spiegarci cosa siano umanesimo e disumanità sia l’ultimo sopravvissuto della tribù Yahi degli indiani d’America della California. Nato nel 1860, sopravvissuto allo sterminio del suo popolo da parte dei coloni bianchi e cercatori d’oro, si nasconde per quarant’anni, e alla fine, nel 1911, incappa nella cosiddetta civiltà in una cittadina della California del Nord, o, più probabilmente, ormai stremato si consegna all’uomo bianco. Quasi morto di stenti, viene ospitato al Museo di Antropologia dell’Università della California, dove l’antropologo Alfred Kroeber raccoglie da lui testimonianza e documentazione sulla sua cultura (la moglie Theodora Kroeber ne scrive la vita: Hishi, un uomo tra due mondi, 1961).
Morirà nel 1916 di tubercolosi, cioè, in senso proprio, morirà dell’incontro con la civiltà.
Ishi è un nome che gli viene dato dagli antropologi, perché non vorrà mai rivelare il suo. Serba ostinatamente il silenzio sulla sacralità del suo nome, che è sacro perché lo lega alla sua gente. Richiesto del perché del suo silenzio, la sua risposta è straziante. Perché, risponde, «Non ho più nessuno che possa chiamarmi».
Non volendo rivelare il suo nome, ci insegna i significati che costituiscono l’umanesimo, ci insegna cioè a pensare la nostra umanità in quanto memoria, in quanto relazione, in quanto pluralità.
Analizziamo la sua risposta.
Ishi dice: «Non ho più nessuno»: dice così che una forma di vita è stata cancellata. E la cancellazione di un popolo significa cancellazione di ogni memoria, cioè della profondità del tempo, che è ciò che ci costituisce come umani.
Continuiamo l’analisi. Dice: «Non ho più nessuno che possa chiamarmi». Dice in questo modo che sono state cancellate le relazioni che costituiscono il tessuto vitale di un gruppo di umani, in cui lo scambio di sguardi e lo scambio di parole sono il primo legame.
Con la sua risposta, dice: non saprete il mio nome. Voi avete cancellato la diversità e la differenziazione che costituiscono l’umanità; perciò siete voi a darmi un nome perché per voi l’umanità ha un solo nome: il vostro.
Il mio vero nome significa non semplicemente un modo diverso di chiamare, significa l’alterità della mia forma di vita, la sua ricchezza, la ricchezza delle diversità – che dovrebbero mettersi in dialogo e donarsi reciprocamente significati.
Ma il soprannome che mi date ha cancellato il mio.
Con la cancellazione del nome, e quindi dell’intera lingua Yana che parlavo, è stata cancellata la pluralità delle lingue e delle forme di vita – quella messa in atto originaria delle differenze che dovrebbe essere considerato, io credo, un vero e proprio dono della Babele biblica.
Per quanto Ishi sia stato inserito in un mondo nuovo che lo ha rispettato e anche amato, il suo non nome, il suo nome negato non smette di ricordarci le pratiche di deumanizzazione che si sono verificate e si verificano anche oggi nel mondo.
Non smette di sollecitarci a riflettere su un’idea di umanesimo come pratica delle differenze e della responsabilità nei confronti della diversità dell’altro, delle memorie e dei mondi possibili generati dalle altre culture.
2. Umanesimo classicista
Come anticipavo, farò ora qualche riflessione sull’umanesimo classicista. Faccio riferimento a uno studio della mia amica filologa e latinista Elisa Romano, Umanesimo e Humanities. Il passato nel presente, tema che abbiamo anche sviluppato in parte insieme1.
Il termine “umanesimo” è di fatto coniato e diventa d’uso diffuso solo nell’Ottocento. Ma il suo campo di significati si è generato in una storia complessa, che va dagli studia humanitatis di cui parla Cicerone, al sostantivo humanista, che in epoca rinascimentale designa lo studioso di retorica e di humanae litterae, all’espressione the Humanities, che nel Settecento inglese designa gli studi dei classici greci e latini, al concetto ottocentesco di Humanismus, con cui la cultura tedesca si è richiamata ai Greci come modello di formazione dell’identità nazionale.
Nei significati raccolti nel campo semantico di “umanesimo”, in momenti storici diversi, rimane senz’altro costante un’idea generalissima di valorizzazione della cultura e di ricerca intorno ai significati e ai fini che portano l’uomo a uno sviluppo compiuto.2 Due filosofe importanti come Hannah Arendt e Marta Nussbaum parlano di umanesimo come consapevolezza critica, capacità di riflessione e soprattutto allargamento dello sguardo al di là degli specialismi e delle conoscenze tecniche.3 Rimando a Arendt, Tra passato e futuro, 1970, e a Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, 2011; ancora Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea 1999.
Ma al di là di questi temi importanti, la forma di umanesimo che designiamo come classicismo ha aspetti problematici.
Le forme di umanesimo classicista finiscono per assumere l’antichità come insieme di esempi e di modelli da imitare, per farne le proprie radici identitarie:
così in epoca umanistica rinascimentale viene assunto come modello il latino di Cicerone; nel ‘700, il neoclassicismo di Winckelmann si rifà all’arte ellenica; nell’Ottocento, l’idea di formazione e di Università di Humboldt si richiama alla grecità. L’educazione nella polis greca, la paideia, è assunta come base della concezione di una formazione (Bildung) dell’uomo nella sua pienezza.
Ora, l’urgenza di questa domanda di senso nel presente – ci dice Elisa Romano – finisce per deformare il passato antico, perché proietta sull’antichità il proprio progetto identitario. Sappiamo oggi molto bene che la pulsione identitaria, l’ossessione per la purezza delle radici, può svilupparsi in senso antidemocratico o addirittura xenofobo, in contesti politici in cui si progetta l’educazione di un popolo eletto o di una classe eletta.
Oltre a fare del passato un monumento, abbellendolo e proiettandovi le proprie radici4, il classicismo assume spesso un pericoloso atteggiamento nostalgico, che finisce per contrapporre la cultura umanistica alla cultura scientifica, svalutando la scienza e identificandola con il tecnologismo e con l’economicismo5.
Non c’è oggi bisogno di un umanesimo di questo tipo, che rischia di fermarsi al semplice piagnisteo e alla contrapposizione con una cattiva immagine della scienza. C’è bisogno di un dialogo aperto tra sapere umanistico e sapere scientifico, basato su quanto ogni tipo di sapere deve condividere: rigore metodologico, immaginazione per la ricerca del nuovo, ed etica del limite, contro l’orientamento al performativo e all’efficienza, cioè al risultato per il risultato.
Un aspetto fondamentale di un umanesimo non prigioniero di piagnistei antiscientifici è la consapevolezza metodologica intorno alla nozione di passato.
Il filosofo Walter Benjamin, in Sul concetto di storia, scrive: non c’è un passato compiuto e immobile, un passato monumentalizzato e a disposizione dei nostri progetti identitari; e ci dice che la storia, cioè la nostra comprensione del passato, è irrisolta, è ancora in formazione, e si forma in un corpo a corpo tra presente e rielaborazione del passato. Benjamin ci spiega il concetto di un passato non monumentale con un’immagine difficile ma folgorante:
l’immagine del patrimonio culturale come preda che oggi portiamo in trionfo, dimenticando così che quello splendido patrimonio si è generato nella contraddizione:
Tutto il patrimonio culturale che [un osservatore distaccato] abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un’origine a cui non si può pensare senza orrore. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie.
E ancora:
Una considerazione del classico che non sa dire nulla sulla schiavitù non può certo valere come conclusiva.6
Questo passo suggerisce che un classicismo antiquario, idealistico e intellettualistico, che separi la cultura dalle condizioni della vita associata, non può che essere una deformazione dell’umanesimo. Di contro, la cultura va vista come un sistema ecologico complesso, in cui si integrano piani diversi: conoscitivo, socioeconomico, etico e ambientale.
Quello che manca nel classicismo idealista è un’immagine integrata della cultura. E, paradossalmente, pur volgendosi al passato, manca, nelle visioni legate a un progetto identitario di questo tipo, quel carattere fondamentale, che è la conquista del senso della storicità, e quindi del senso dell’alterità e della differenza.
3. L’umanesimo di Lévi-Strauss
Una lezione in questo senso ci viene dal grande antropologo Claude Lévi-Strauss, che scrive nel 1956 un breve saggio su I tre umanismi, in cui parla dell’umanesimo dell’etnologia. Egli scrive:
L’etnologia [la conoscenza dei popoli lontani] non è né una scienza a parte, né una scienza nuova: è la forma più antica e più generale di ciò che designiamo col nome di umanismo.
Lévi-Strauss intende dire che l’etnologia, lo studio dei popoli arcaici e delle civiltà lontane dalla nostra, è umanistica non per il suo oggetto, cioè gli altri popoli, non per una nozione generale di uomo, ma per il modo di guardare all’alterità, e quindi al passato. Scrive ancora:
Quando gli uomini della fine del Medio Evo e del Rinascimento hanno riscoperto l’antichità greco-romana, e quando i Gesuiti hanno fatto del greco e del latino la base della formazione intellettuale, non è stata forse questa una prima forma di etnologia?
Una forma di etnologia, perché
Si riconosceva infatti che nessuna civiltà può pensare se stessa se non dispone di qualche altra che possa servire da termine di paragone.
Il tema di Lévi-Strauss è dunque il senso dell’alterità: Lévi-Strauss scrive che l’etnologia è pratica della relazione al diverso, e quindi conquista del senso della storicità e della comparazione con le altre epoche, contro un’interpretazione unitaria e progressiva della storia e dello sviluppo del pensiero (e, aggiungiamo, contro il dominio del pensiero occidentale sul pensiero dei popoli economicamente deboli).
L’etnologia è umanesimo, in quanto è capacità di mettere in prospettiva la propria cultura e confrontarsi con gli altri e con le altre culture.7 In questo senso, un paradigma umanista ha bisogno di uno sguardo contrastivo e spaesante, che colga similarità e differenze, e che sia capace di tornare, dalla riflessione sull’altro, alla riflessione su di sé: una radicale presa di distanza da noi stessi, un viaggio presso l’altro, è infatti necessario in ogni forma di autocomprensione.
Riprendendo l’insegnamento di Lévi-Strauss, nella seconda metà del Novecento antropologi come Francesco Remotti e James Clifford hanno insegnato che ogni cultura è un meticciato di elementi eterogenei, e che ciò che rende interessanti culture e civiltà non è «la loro essenza o purezza, ma le loro mescolanze e diversità». Tutte le società, arcaiche o moderne, non sono entità chiuse, ma processi in cui è coinvolta l’alterità, in un lavoro di rimodellazione continua del “noi”, tra assimilazione e differenziazione. Con un esempio che riguarda la nostra storia, pensiamo al processo complesso di assimilazione della cultura greca con cui i Romani mettono in atto un processo di fondazione della propria cultura.8
Le culture non sono monoliti, ma processi che comunicano tra loro; le culture si fanno e si disfano, attraversano sia i momenti della costruzione, sia i momenti della crisi.9 L‘antropologo Jean-Loup Amselle,10 in Logiche meticce, ci insegna che il meticciato è originario, non sopravviene alla purezza: anzi, è una categoria che serve proprio contro l’idea di purezza. Non si tratta solo di proteggere il diverso e le diversità, ma di lasciare che le mescolanze sociali avvengano, perché così si costruiscono le culture.11
Potremmo pensare l’umanesimo dell’antropologia come lavoro di comparazione col diverso che non mira all’universalizzazione (a trovare l’umano in generale), ma piuttosto al riconoscimento contrastivo e asimmetrico di sé: noi, primitivi ‑ come dice il titolo di un libro di Francesco Remotti; noi che possiamo attraversare la distanza dell’altro solo dopo aver preso distanza da noi.
4. L’umanesimo come pratica della differenza
L’umanesimo, dunque, come pratica della differenza, non dell’identità: questo è l’insegnamento umanistico dell’antropologia, così espresso da Edward Said, scrittore, critico letterario e antropologo palestinese, che ha criticato il concetto occidentale di Oriente, e che scrive in Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, 2007:
L’umanesimo è l’esercizio delle facoltà di ognuno per capire, reinterpretare e cimentarsi con i prodotti della lingua nella storia, in altre lingue e in altre storie. […] Esso non è un modo per consolidare e affermare quello che “noi” abbiamo sempre saputo e sentito, ma piuttosto un mezzo per interrogare, mettere in discussione e riformulare ciò che ci viene presentato sotto forma di certezze già mercificate, impacchettate, epurate da ogni elemento controverso e acriticamente codificate. L’umanesimo, in certo senso, è una forma di resistenza alle idées reçues e si contrappone a ogni genere di luogo comune e di linguaggio acritico. La pratica umanista è una tecnica di disturbo, e tale deve restare in un periodo in cui l’orizzonte nazionale e internazionale sta subendo enormi trasformazioni e riconfigurandosi […] un compito per definizione infinito, che non deve approdare a una conclusione, cioè all’effetto deleterio di doversi fare garante di un’identità per la quale lottare, da difendere e sostenere. (pp. 57, 69, 104).
Ancora:
Bisognerebbe prendere le distanze […] dalla tesi di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà […] [perché] fraintende radicalmente quello che rende interessanti le culture e le civiltà: non la loro essenza o purezza, ma le loro mescolanze e diversità, quanto in esse va controcorrente e il modo in cui intraprendono un impegnativo dialogo con le altre civiltà.12
L’umanesimo ci insegna le differenze, e ci insegna soprattutto a fare le domande corrette: non si tratta di continuare a chiedere a cosa possano essere utili gli studi umanistici. La qualità specifica degli studi umanistici è oggi un’altra: insegnare a formulare correttamente le domande, a formulare in tutta la loro ricchezza «le domande di senso che ci riguardano», scrive Elisa Romano;
e sono domande che riguardano le differenze, il pluralismo, le forme della memoria, il rigore scientifico, l’etica del limite, il rapporto della ragione scientifica con la vita associata, e in ultima analisi la convivenza, che non è solo convivenza delle forme di vita umana, ma anche convivenza di tutte le specie, animali e vegetali, fino agli esseri inorganici che popolano la terra.
CORRADO SANGUINETI, Vescovo di Pavia
Ringrazio il dott. Marco Manzoni che ha promosso l’incontro di questa sera e che da anni stimola la riflessione su queste tematiche cruciali per il nostro presente e il nostro futuro e sono lieto di partecipare insieme all’amico professore Fabio Rugge e alla professoressa Silvana Borutti.
Il senso della domanda che sta al centro del nostro dialogo a più voci è chiaramente legato al tempo che stiamo vivendo, nel quale stiamo affrontando una sorta di “poli-crisi” che mette in questione il destino e l’identità dell’uomo, meglio degli uomini e delle donne che vivono e che vivranno in questo angolo dell’immenso universo, in cui per un’impressionante concorso di cause, si è formato un ambiente favorevole alla nascita e allo sviluppo della vita, fino all’apparire del soggetto umano. Un soggetto che da una parte è ovviamente “imparentato” con il suo ambiente e con altre forme di vita animale, e d’altra parte rappresenta un unicum, un essere fragile, eppure capace di porre interrogativi sulla totalità di ciò che esiste, limitato e mortale, eppure abitato da desideri e aspirazioni inesauribili: un soggetto che nella storia del pensiero soprattutto occidentale è stato pensato e riconosciuto con una dignità singolare, come persona, come “io” cosciente e libero, che non solo sa e conosce, ma sa di sapere e s’interroga sulle condizioni della conoscenza, un “io” sussistente e tuttavia dipendente dalle relazioni che sono il tessuto della sua esistenza, fin da quando è concepito nell’atto, si spera, d’amore tra un uomo e una donna, e nel grembo è totalmente in simbiosi con la madre che lo porta in sé per nove mesi. L’essere persona esprime la sua originaria apertura all’altro, al “tu” e al “noi”, fino ad aprirsi al “Tu” supremo di Dio e del mistero, e la sua capacità di comunicare con altre persone, in quel fenomeno affascinante e tipicamente umano che è il linguaggio, non solo verbale, ma anche gestuale, emotivo, affettivamente connotato. È un “io” che, pur condizionato da fattori ambientali, da dinamismi neurologici e chimici, resta capace di decidere di se stesso e come tale può farsi attore di gesti e imprese grandi e positive, come di atti e progetti disumani e impregnati di male, di odio, perfino di gratuita crudeltà.
Ora l’io umano che siamo ciascuno di noi, assume volti differenti nel passare dei giorni, dal volto luminoso e fresco di vita di un bimbo al volto pieno di rughe e di segni del vecchio, dal volto pieno di promessa e di futuro dell’adolescente e del giovane, al volto sfinito e talvolta segnato profondamente dalla sofferenza e dalla malattia che lo consuma. Anzi nello sguardo e nei tratti di una persona possiamo in certo modo leggere ciò che muove e orienta la sua libertà: ci sono volti in cui traspaiono l’amore e la compassione di chi si prende cura dell’altro, e purtroppo volti induriti e sfigurati dal male e dall’odio, volti pieni di letizia e volti carichi di tristezza, volti puri e trasparenti e volti equivoci e ambigui.
Ora, nel nostro tempo, è a rischio il bene dell’uomo, la stessa percezione del suo valore unico e irriducibile, il suo futuro cammino su questa terra, per molteplici crisi che si stanno manifestando, in modo sempre più drammatico, nel vissuto dei popoli, delle famiglie, delle persone.
Senza la pretesa d’essere esaustivo, in sintonia con l’introduzione del professore Manzi, ritengo che siano tre le grandi crisi che non possiamo non vedere e da cui non possiamo non lasciarci interrogare e inquietare, se siamo umani!
In primo luogo assistiamo a una crisi della convivenza tra nazioni e popoli, con il ritorno di una cultura del confronto e della guerra, che riappare un’opzione possibile e quasi normale: le guerre che si moltiplicano, con logiche di distruzione e di annientamento del nemico – come in Ucraina, in Israele e Palestina, in tante nazioni dimenticate del continente africano -, la crescita della violenza che in certi casi diventa il clima dominante della vita sociale – pensiamo alla tragedia di Haiti – e che trova espressioni preoccupanti anche nel nostro mondo occidentale (baby gang, femminicidi e crescita di relazioni possessive e tossiche anche tra giovanissimi), la diffusione di persecuzioni e discriminazioni verso minoranze etniche e religiose, la chiusura indiscriminata verso lo “straniero” con lo sviluppo di politiche migratorie non solo di contenimento, ma di sistematica espulsione, con il moltiplicarsi di muri e fili spinati e la generica visione dei migranti come potenziale pericolo per la convivenza sociale, sono tutti sintomi di questa prima grande crisi che mette in questione scelte e responsabilità della politica e il clima umano delle nostre società.
C’è poi una crisi legata a un modello economico che in nome dell’assoluta libertà del mercato e di quello che Papa Francesco ha chiamato «paradigma tecnocratico» (cfr. enciclica Laudato si’, 102- 114), produce una crescente diseguaglianza non solo tra interi popoli, ma anche tra classi sociali all’interno della stessa nazione. Si determina così la concentrazione di ricchezza e di potere finanziario e tecnologico nelle mani di una cerchia sempre più ristretta di “super-ricchi”, con la conseguente contrazione della classe media e una redistribuzione del reddito sempre più ingiusta e squilibrata. Da qui deriva una situazione di «inequità sociale», com’è l’ha definita Francesco con uno dei suoi neologismi, mentre è favorito lo sfruttamento dissennato e intensivo delle risorse naturali, con gravi ricadute sull’ambiente naturale e sociale: c’è «un grido della terra e dei poveri» (Francesco) che si leva sempre più forte e chiede d’essere ascoltato, e davvero, come amava ripetere Francesco «tutto è connesso» e la strada da percorrere è quella di un’ecologia integrale che allo stesso tempo è ambientale, sociale e umana.
Ne va del futuro della nostra casa comune e ne va della dignità di milioni di uomini e donne, di tanti e troppi bambini derubati della loro infanzia, vittime di abusi vergognosi nel lavoro precario, sottopagato e pericoloso – magari per estrarre i preziosi materiali dei nostri smartphone e delle batterie elettriche delle nostre auto -, nell’industria dello sfruttamento sessuale e della pedopornografia, nell’arruolamento in eserciti e bande violente, ne va di generazioni di giovani privati di prospettive di cambiamento e mortificati nelle loro potenzialità creative e generative.
La stessa crisi demografica, spesso connessa a una crisi della famiglia e della tenuta dei legami affettivi e sociali, che colpisce nazioni e popoli di più continenti, non solo la nostra “vecchia” Europa ma anche la Cina e l’India, è frutto di questa mancanza di futuro, di una visione individualistica e senza respiro, di una mancanza di speranza e di ragioni grandi per vivere, rischiare, costruire, per lasciare una traccia buona di sé alle generazioni che verranno.
Infine, c’è ancora più profonda, a mio parere, una crisi antropologica, che tocca la coscienza stessa che l’uomo ha di sé e del suo volto originale: su questa vorrei soffermarmi per giungere alla proposta delle condizioni, a mio parere, essenziali e decisive per un nuovo umanesimo, capace di reggere la sfida e le questioni del presente e del prossimo futuro.
L’epoca moderna è nata dalla scoperta del soggetto umano, della sua dignità e libertà, della sua capacità di conoscenza, riflessa nell’impressionante sviluppo delle scienze e nel vorticoso progresso della tecnica, con tutte le sue nuove conquiste e applicazioni, fino all’attuale rivoluzione digitale, alle prospettive aperte dall’intelligenza artificiale. Tutti abbiamo l’impressione di un ritmo sempre più veloce delle conoscenze e delle nuove possibilità che si dischiudono, di anno in anno, di mese in mese, e tutto ciò genera allo stesso tempo entusiasmi e paure, attese e timori, speranze e incertezze. Paradossalmente, la modernità, iniziata nel segno dell’umanesimo rinascimentale, che ha conosciuto l’esaltazione della ragione in epoca illuministica e lo sviluppo delle nuove scienze sperimentali e sociali, sta trapassando o è già trapassata nella stagione della post-modernità, non solo nel segno del crollo delle ideologie, dei sistemi filosofici strutturati, delle grandi narrazioni e di una strisciante cultura nichilista che svuota di senso e di speranza la vita umana, ma addirittura sfociando in derive post-umaniste o trans-umaniste che potrebbero condurre alla dissoluzione del soggetto umano, al suo “superamento” da parte di macchine sempre più “intelligenti” e performanti o alla creazione di ibridi tecno-umani, con scenari da brivido. Certo, siamo spesso di fronte a narrazioni distopiche, a progetti che perseguono il sogno di oltrepassare il limite e la finitezza della condizione umana, con una buona componente di megalomania e di utopia, tuttavia ci sono correnti di pensiero che propugnano la fine dell’umanesimo, la riduzione della persona umana a semplice ingranaggio della natura, a particella insignificante dell’immenso cosmo.
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Ci sono processi in corso che intendono ridefinire e rendere sempre più fluida e indeterminata l’identità del soggetto umano e le esperienze radicali dell’umano: amare, concepire una vita, nascere, soffrire e morire. Diventa così sempre più impellente e urgente la domanda sull’uomo, sul suo volto, sul significato della sua esistenza, sui limiti della sua azione e su ciò che è proprio della condizione umana, nella sua grandezza e nella sua miseria, per riprendere termini pascaliani.
Lo stesso sviluppo dell’intelligenza artificiale che ha e potrà avere applicazioni straordinarie e positive nel campo dell’attività medica, scientifica, lavorativa, apre questioni rilevanti sul piano etico, pensiamo nel campo dell’uso di armi sempre più sofisticate “intelligenti”, sul rischio di allargare ancora di più il fossato tra chi conosce e utilizza possibilità prima ignote e chi resta tagliato fuori, diventando parte di una massa governata da pochi.
Su questo tema ha offerto riflessioni stimolanti e anche critiche Papa Francesco in alcuni interventi della parte finale del suo pontificato e lo stesso Leone XIV ha voluto collegare la scelta del suo nome da pontefice con la figura di Leone XIII che, all’epoca della prima rivoluzione industriale, con i suoi fenomeni d’innovazione e di sfruttamento del lavoro dipendente, senza scrupoli e limiti, volle affrontare le res novae con la prima enciclica sociale della Chiesa, la Rerum Novarum (1891). Analogamente la Chiesa avverte il bisogno di dare un suo contributo di pensiero e di azione in questo «cambiamento d’epoca», segnato in modo particolare dalla rivoluzione digitale e dallo sviluppo, appena agli inizi, dell’intelligenza artificiale:
Proprio sentendomi chiamato a proseguire in questa scia, ho pensato di prendere il nome di Leone XIV. Diverse sono le ragioni, però principalmente perché il Papa Leone XIII, con la storica Enciclica Rerum novarum affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande rivoluzione industriale; e oggi la Chiesa offre a tutti il suo patrimonio di dottrina sociale per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro1.
Diventa centrale mettere a fuoco l’originale e insuperabile dignità dell’uomo, la sua vocazione ad essere non padrone e arbitro assoluto del mondo e della sua stessa esistenza, ma custode che con il suo ingegno e le sue capacità può essere, come tante volte lo è stato, un alleato della creazione, artefice di bellezza, che sa usare sapientemente delle risorse della natura, un soggetto che interagisce con l’ambiente, senza fare violenza alla natura della realtà e della sua stessa umanità. Così l’interrogativo sull’uomo non è più una questione riservata agli intellettuali, ai filosofi, agli scienziati: è questione che tocca e interessa la vita di tutti e che chiede uno sguardo ampio, multiforme, non riduttivo o unilaterale sul soggetto umano, sull’esperienza che egli vive, sulle dimensioni che ne caratterizzano il suo modo d’essere.
In questa prospettiva, ritengo che sarebbero da riprendere e da fare oggetto di dialogo e di confronto le riflessioni originali di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, che è stato contemporaneamente un fine intellettuale europeo, un grande teologo cristiano, un pastore chiamato a guidare la Chiesa cattolica in anni complessi e non facili: di lui si può condividere o no il pensiero, con le sue attente e documentate analisi del percorso intellettuale e spirituale della modernità e post-modernità occidentale, ma non può essere liquidato come una voce irrilevante. Ebbene, in molti suoi interventi, egli ha provocato la ragione moderna, tipica del nostro universo culturale europeo, a non cadere in una visione positivista e riduttiva della realtà e dell’uomo, assolutizzando le scienze sperimentali e matematiche come unica forma di conoscenza, a ritrovare il coraggio e l’audacia della ragione come apertura senza limiti a tutte le dimensioni della realtà e dell’esperienza. Ratzinger proponeva di ritrovare l’ampiezza di una ragione allargata che si lascia interpellare da tutte le domande che sorgono nell’uomo di fronte alla vita, al cosmo, a se stesso, e quindi a praticare un approccio al reale e all’umano in cui si possono e si devono intrecciare e arricchire vicendevolmente prospettive differenti e forme distinte di sapere.
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1 LEONE XIV, Incontro con i cardinali, Roma, 10/05/2025.
Accanto allo sguardo e all’indagine della scienza e delle sue sempre più complesse e sofisticate applicazioni nel campo digitale e nella nuova frontiera dell’intelligenza artificiale, resta lo spazio per altri sguardi, per altre dimensioni, per altre domande, ancora più radicali: qui s’innesta il contributo della filosofia, dell’etica, della religione e della teologia, dell’arte e dell’estetica. Permettete che citi due passaggi di grande forza e bellezza di Benedetto XVI, tratti da due interventi di rilievo, il primo all’università di Regensburg e il secondo al parlamento federale tedesco:
Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità,del resto, è … volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza2.
Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. […] La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto3.
Non usciamo dalla crisi antropologica attuale, che ha ripercussioni gravi nel vissuto delle persone, delle società e dei popoli, nel vuoto educativo che si riflette dagli adulti alle giovani generazioni, se innanzitutto non abbiamo il coraggio di essere appassionati ricercatori della verità, della bellezza e del bene, leali con la nostra umanità aperta al mistero, intessuta di domande e desideri strutturali e irriducibili che hanno sempre condotto gli uomini all’interrogazione radicale sul senso della propria vita, all’intuizione e al riconoscimento di Dio come Logos che rende intelligibile e ragionevole l’avventura dell’umana esistenza.
La riduzione dell’uomo a puro fenomeno della natura, particella anonima del cosmo, totalmente definito dai suoi antecedenti e dai suoi fattori biologici, chimici, neurologici, ambientali, priva il soggetto umano della sua qualità di persona, che comprende una dimensione più profonda, spirituale e interiore, un’apertura costitutiva alla trascendenza, inscritta nel suo stesso essere.
Come Chiesa, ci sentiamo coinvolti e impegnati a partecipare del dramma che attraversano gli uomini e le donne del nostro tempo, e desideriamo entrare in dialogo e in rapporto con tutti coloro che non si rassegnano alla vittoria dell’insensatezza, della violenza, di un agire che ha come unici criteri quelli di un miope utilitarismo che tutto riduce a uso e consumo, a sfruttamento e a guadagno.
2 BENEDETTO XVI, Incontro con i rappresentanti della scienza. Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, Regensburg, 12/09/2006.
3 BENEDETTO XVI, Visita al parlamento federale, Reichstag di Berlino, 22/09/2011.
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Così come riteniamo inaccettabile una concezione dell’uomo e del suo essere nel mondo, che lo appiattisca a una sola dimensione, che soffochi le domande radicali del suo cuore, che non si apra un “oltre”, a una dimensione spirituale, all’esperienza innegabile della moralità, della libertà, della coscienza, della capacità relazionale come tratti originali del soggetto umano.
Accettiamo che nel confronto con altre posizioni ideali e di pensiero, ci sia spazio per una sana e giusta dialettica, dove ciascuno cerca di dare ragione di ciò che afferma, in un dialogo che per sua natura mette in gioco il logos umano, come ragione, pensiero, linguaggio e parola, e in questo incontro e cammino che ci coinvolge, come credenti, non possiamo sottacere la letizia e la bellezza della fede cristiana, mostrandone la sua intima ragionevolezza e offrendo, pur con tutti i nostri limiti, la testimonianza di un’umanità commossa e positiva, che insieme con altri compagni di cammino, cerca di costruire tracce e luoghi di umanità nuova, cerca di condividere i bisogni e le sofferenze dei fratelli, promuovendo forme e modi di un’economia libera, ma non liberista, sociale, ma non statalista, tesa alla crescita e allo sviluppo, ma non schiava del “PIL” e della finanza, cerca infine di accogliere il grido della terra e dei poveri e di far avanzare, in ogni modo, una cultura di pace, di accoglienza, di quella «convivialità delle differenze» dove l’altro, il “diverso” da me diventa un bene, una ricchezza ed è sollecitato a superare anche lui logiche di sospetto, di difesa e di chiusura identitaria, se non di aggressione verso la cultura e la società dove s’inserisce.
Come alla radice del pensiero, secondo la tradizione degli antichi, c’è lo stupore per la realtà per ciò che è, per l’essere, così alla radice di ogni autentico umanesimo, dovrebbe esserci lo stupore, la meraviglia per l’uomo, per questo essere così affascinante e contraddittorio: guai a perdere il senso e il fremito dello stupore, che si può mescolare di dolore, a volte anche di orrore, per gli abissi di bene e di male, di genialità e di rozzezza, di nobiltà e di meschinità di cui siamo capaci.
Non è un caso che l’umanesimo europeo, anche nei suoi sviluppi della modernità laica e illuminista, abbia comunque le radici più profonde nel cristianesimo, nel senso della persona e della sua dignità che la fede cristiana ha favorito e ha fatto crescere, pur con tutte le ombre e le contraddizioni, i cedimenti a prassi violente e intolleranti in nome della verità, scissa dalla carità.
Vorrei concludere con un passaggio sempre formidabile del discorso con cui San Paolo VI chiudeva la celebrazione del Concilio Vaticano II, ormai 60 anni fa, nel segno di un incontro non facile e non scontato tra la Chiesa e il mondo moderno, proprio intorno al volto e al destino dell’uomo:
La Chiesa del Concilio, sì, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dell’uomo, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé, l’uomo che si fa soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà. Tutto l’uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze; si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari, essi pure uomini, tutti Pastori e fratelli, attenti perciò e amorosi: l’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi l’uomo infelice di sé, che ride e che piange; l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l’uomo rigido cultore della sola realtà scientifica, e l’uomo com’è, che pensa, che ama, che lavora … ; e l’uomo sacro per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore; l’uomo individualista e l’uomo sociale; l’uomo «laudator temporis acti» e l’uomo sognatore dell’avvenire; l’uomo peccatore e l’uomo santo; e così via. L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo4.
4 PAOLO VI, Allocuzione all’ultima Sessione Pubblica del Concilio Ecumenico Vaticano II, 7/12/1965.
FABIO RUGGE, storico
Cari Amici,
grazie a Marco Manzoni e al Collegio Ghislieri per l’invito e per avermi sollecitato a riflettere su un tema così importante, in dialogo con relatori autorevoli.
Affronterò il nostro argomento da un’angolatura che potrebbe apparire sghemba. Non parlerò dei temi e dei fini di un nuovo umanesimo, ma degli strumenti indispensabili a individuare quei temi e a perseguire quei fini. Mi interrogherò, in sostanza, su quali virtù domandi l’umanesimo che auguriamo al XXI secolo. Parlare di virtù, del resto, mi permetterà di rimanere ancora in dialogo con Salvatore Veca. Perché proprio nella meditazione sulle virtù il nostro dialogo trovò uno spunto importante.
Ebbene, anche su questa domanda – come su tutti i temi su cui da un anno a questa parte mi trovo a riflettere – ho interrogato un paio di chatbots: in questo caso ChatGpt e DeepSeek. Lo faccio, di solito, soprattutto per comprendere quanto, come cervello umano, posso aggiungere al lavoro dell’intelligenza artificiale, in cosa può consistere il mio contributo – diciamo così – creativo.
Ora, alla mia domanda su quale fosse la virtù cardinale per il XXI secolo, Chatgpt e Deepseek hanno dato, all’incirca, lo stesso responso. Hanno risposto “l’adattività”. Ecco: la mia risposta, per sperare di essere creativa, seguirà una strada opposta, che del resto mi è più congeniale. Parlerò quindi di virtù non adattive, ma trasformative (e aggiungo, per marcare la differenza, radicalmente trasformative).
La prima virtù a cui penso è l’ottimismo. È chiaro che non parlo della sindrome di Polyanna, la dolce fanciulla del cartone animato; non mi riferisco a un uso selettivo delle facoltà analitiche che generi una rappresentazione edulcorata del presente (così Margareth Matlin e David Stang hanno definito questa sindrome alla fine degli anni ’70). Né il mio l’ottimismo ha l’ancoraggio potente, perché trascendente, di quella speranza che Papa Francesco ha di recente riproposta alla cristianità. Il mio ottimismo è più mondano e provocatorio. Tende cioè a investire polemicamente una rappresentazione corrente del mondo che pare la perfetta inversione, parimenti ingannevole, della sindrome di Polyanna.
Voglio dire che il pensiero occidentale e, in generale, il discorso pubblico dell’emisfero nord (quello che più sarebbe più intitolato a chiamarsi felice) sono oggi dominati dal pessimismo. Prevalgono una libido auto-flagellatoria, un sentimento cupo del futuro, una vera e propria ‘teologia laica’ della caduta che però non conosce nessuna promessa di salvezza. Be’, lo spirito soggiacente all’umanesimo classico che oggi vorremmo rinnovare fu ben diverso. Certo, il terrorismo e le Torri gemelle, la crisi Lehman Brothers e il Covid, ora la guerra nel cuore dell’occidente europeo e mediterraneo hanno radicato in noi angoscia e paura.
Ma è importante osservare che questi eventi hanno, in realtà, riattivato una vena di pessimismo che corre lungo tutto la storia del pensiero occidentale. È coeva, d’altronde, allo stesso umanesimo classico e abita tutte le scienze dell’uomo dalle origini sino alla loro fioritura ottocentesca. Gran parte della teoria politica post-aristotelica, per esempio, cresce sul presupposto radicale che la natura socievole dell’uomo sia inestricabilmente legata alla sua tendenza al dominio e alla sopraffazione.
È una convinzione presente nel cinismo di Niccolò Macchiavelli, fonda il contrattualismo hobbesiano dell’homo homini lupus, giunge sino alle teorie pretesamente idealtipiche di Max Weber. Ancora oggi una delle più diffuse definizioni dello stato è proprio la sua: lo stato è (sarebbe) l’organizzazione che detiene il monopolio della violenza legittima. È una definizione che pretende di essere a-valoriale, ma in realtà incarna una visione tutta interna a una storia prussiana di dominazione militare.
Ora, possiamo ben pensare le nostre società politiche fondate sulla prevaricazione, come se ciò corrispondesse alla nostra natura più profonda. Ma possiamo anche immaginarle diversamente fondate. Molta storia e molti studi recenti, dalla socio-psicologia alle neuroscienze (penso a uno studioso come Daniel Batson e ai suoi lavori sull’altruismo) dimostrano società fondate sulla capacità di provare sentimenti di identificazione, compassione, vicinanza e amicizia.
Non troppo diversamente dalla teoria politica, quella economica presuppone prevalentemente soggettività egoistiche. Al suo centro campeggiano un individuo unicamente teso a massimizzare la propria utilità e, tra le entità produttive, sembrano esistere unicamente quelle orientate a espandere i propri profitti. Solo muovendo da questi presupposti sconfortanti, l’economia ritiene di essere rigorosa e può lasciarsi definire, non senza civetteria, la “scienza triste”.
Né è scevra di pessimismo la dottrina economica marxista. La sua versione classica aveva come corollario, prima del lieto fine, conflitti radicali e letali. Le versioni vintage alla Thomas Piketty sono più clementi; ma hanno ottenuto successo mondiale agitando il coltello nella piaga delle disuguaglianze e non certo ingegnandosi a spiegare come capitalismo, globalizzazione e mercato – sia pure temperati dalla saggezza socialdemocratica o dal neo-confucianesimo comunista – abbiano tirato fuori gran parte dell’umanità dalla povertà estrema.
Solo di recente, gli studi – finalmente transdisciplinari – della psycho-economics hanno riscoperto la complessità delle motivazioni dell’homo oeconomicus (penso al premio Nobel assegnato a Daniel Kahnemam). Ma, per la verità, sarebbe bastato leggere tutto Adam Smith, anche quello perciò che riteneva “necessaria” all’uomo “l’altrui felicità” – e per nient’altro, scriveva, che per “il piacere di contemplarla”. O sarebbe stato sufficiente prendere sul serio quella “teoria del dono” che Marcel Mauss offrì alla riflessione collettiva già nel lontano 1923.
Sì, un’altra economia e persino un’altra finanza è possibile, ma le scienze sociali hanno preferito battere un’altra via. Hanno scelto di relegare nella dimensione del mero idealismo, anzi delle pie illusioni, le tendenze pur concrete e visibili che sconfessano i loro postulati negativi.
Quando parliamo del cambio di paradigma indispensabile a un nuovo umanesimo dobbiamo muovere da qua. Non tanto da profezie generose, ma dalla capacità di leggere il futuro come derivata del tutto realistica di un oggi che contiene anche radiose promesse. Serve insomma un pensiero capace di accogliere la positività che sta dentro lo stato di cose presente e quindi di studiarlo più a fondo, più attentamente, senza l’intenzione di trovarvi, a ogni costo, la conferma di una teologia della caduta.
Questa donna, questo uomo ottimisti e avvedutamente speranzosi, divengono – ed è questa la seconda virtù di cui voglio dire – una donna e un uomo coraggiosi. Già, perché il pessimismo di cui ho parlato finora non ha nulla a che fare con la “paura euristica” descritta da Hans Jonas. Questa spinge a scoprire e praticare nuove soluzioni. Al contrario, il tremore dinanzi all’ineluttabilità della caduta paralizza, ci fa rimanere avvinghiati alle risposte convenzionali, ci rende essenzialmente conservatori.
Questa sindrome riguarda specialmente il mondo della politica e delle istituzioni. È chiaro che il nuovo umanesimo non potrà svolgersi al di fuori di costituzioni che lo accolgano e lo rispecchino. Sicché chi lo propugna non potrà non ribadire la fede negli ordinamenti democratici. È anche chiaro però che la democrazia liberale, un tempo pensata come destino comune dell’umanità, è oggi in recessione.
Sul piano internazionale, gli autocrati, da Xi Jinping a Orban Viktor, la sbeffeggiano come incapace di reggere la competizione con i loro sistemi dittatoriali e illiberali. Sul piano interno la mortificano non solo i populisti alla Donald Trump, ma anche le élites ortodosse, quelle – per rimanere all’estero – che, in una delle democrazie più antiche del pianeta, cui si riconosce il più alto grado di trasparenza mediatica, sono riuscite per mesi a nascondere al loro paese le condizioni reali di un capo dello stato in carica.
La risposta a questa crisi plateale è però pigra e tutta difensiva. Negli stati democratici avanzati, le forze di destra e di sinistra faticano a proporre seriamente integrazioni incisive ai modelli costituzionali classici. Del resto, la stessa dialettica tradizionale di destra e sinistra, quando non risulta rovesciata nei termini, si mostra oggi più capace di oscurare la sostanza delle questioni urgenti che non utile a illustrarle e a renderle decidibili. Rispetto alla guerra, alle scelte ambientali, agli inediti dilemmi posti dalla scienza, la distinzione tra progressisti e conservatori arranca e si sfrangia. Pare essere utile semmai a fidelizzare elettorati sempre più esangui, sempre meno convinti.
Eppure, nonostante le dimostrazioni inquietanti di disaffezione verso la democrazia parlamentare, i passi coraggiosi per integrarla con strumenti partecipativi di nuova generazione non si collocano certo in prima linea nei programmi dei maggiori partiti politici. Esistono questi strumenti? Certo.
Si registra nell’ultimo mezzo secolo – anche se guardiamo soltanto all’Europa – un fermento continuo di sperimentazioni istituzionali. Si va, in Germania, dalle Bürgerinitiativev degli anni ’70 all’esperienza ormai consolidata degli attuali Bürgeräte, da episodi interessanti come la loi Barnier del 1995, che ha introdotto in Francia la Commissione nazionale di dibattito pubblico sui temi ambientali, alle citizens assemblies irlandesi attivate nello scorso decennio sui temi costituzionali. Dagli anni ’90, a partire dalla teorizzazione fattane da Peter Haas, si è poi profilata la proposta di ‘comunità epistemiche’, candidate a divenire forme transnazionali di governance dei processi più delicati e urgenti del nuovo millennio.
In comune molte di queste proposte hanno l’intento di rimettere in gioco un fattore decisivo di funzionamento della democrazia, la competenza, associandola a un principio fondamentale, la responsabilità. È incredibile come, invece, nei processi decisionali di società che definiamo della conoscenza, si attinga al sapere come a una risorsa accessoria, da mobilitare ex post rispetto a scelte spesso desunte dalla demoscopia.
Quelle che ho ricordato sono certo esperienze sparse, episodiche, eterodosse, spesso contrastate o lasciate avvizzire (anche quando, magari, avevano conseguito buoni successi). Sono spezzoni di una post-democrazia, che non hanno però trovato imprenditori politici coraggiosi, capaci di dare loro sistema e volto. Altrettanto, avviene sul piano degli ordinamenti internazionali. Si esita ancora a compiere passi ormai irrinunciabili: dal salto in avanti richiesto all’Unione europea, alla riforma del sistema ONU, all’attivazione efficace del pacifismo giuridico.
Eppure, io sono persuaso che solo imprese politiche imperniate su questi temi possono tornare a suscitare l’interesse delle opinioni pubbliche, sottrarle al letargo cui con dolcezza le accompagnano mass media pettegoli e social media autoreferenziali. Sicuramente è questo il coraggio civile, di civismo globale, che serve a raggiungere nuovamente i giovani. I loro volti, sorridenti, motivati, si sono riaffacciati sulle piazze (e senza bandiere di partito) quando in agenda erano scritti tempi importanti, vitali, appassionanti come quelli della pace e quelli ambientali. Non a caso, i Fridays for the future hanno collegato le piazze di 150 paesi: dal Canada alla Germania, dal Cile all’Australia. È lì che ci siamo tutti ricordati, per davvero, di appartenere a una sola umanità e a un solo pianeta.
Non è però su quest’unico aspetto politico-istituzionale che possiamo soffermarci parlando di virtù per il nuovo umanesimo. Qualunque definizione ne abbracciamo, quell’umanesimo non si instaurerà (in realtà, non si costellerà neppure) se non attraverso scelte coraggiose che riguardino tutti i campi. Occorre fare rientrare nei nostri atlanti, un continente, l’Africa, che spigliatamente ne abbiamo espunto. Occorre ripensare i nostri sistemi formativi edificati su architetture disciplinari obsolete. Occorre tornare a ragionare, da esseri umani, sul senso della famiglia, della genitorialità e dei rapporti tra le generazioni.
Tutto ciò ha bisogno di persone disposte a sottrarsi al conformismo e all’opportunismo, capaci di discernere strade nuove, pronte ad affrontare – pronuncio queste due parole terribili alle nostre orecchie – il rischio e il fallimento. Ed è per questo che il tema del coraggio non riguarda solo le dirigenze politiche, ma viene ad afferrarci direttamente qui, in questi luoghi deputati alla formazione delle élites sociali e professionali.
Come stupirsi che una ruminatrice di luoghi comuni, di testi elettronici a strascico come l’intelligenza artificiale fornisca alla domanda su quale virtù sia necessaria per addentrarsi nel nuovo millennio la risposta “adattività”? Ma come non pensare invece, per la natura stessa di questa pseudo-verità digitale, che la risposta giusta vada ricercata nella direzione opposta?
Ho parlato di ottimismo e di coraggio. In realtà, si tratta di due virtù che si coonestano l’un l’altra, che si rinforzano reciprocamente. L’ottimismo autorizza il coraggio, il coraggio dà ragione all’ottimismo. Praticarle è assai più difficile di predicarle, ma certo l’umanesimo classico le praticò entrambe e fu una delle stagioni più luminose della nostra storia.